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Rompiamo il silenzio sulla periferia

Dopo la pubblicazione del nostro articolo del 7 dicembre, «La delegata alle periferie e gli amanti traditi» finalmente si è rotto il silenzio ovattato riguardo le condizioni dei quartieri che viviamo e abitiamo. Silenzio che perdura da anni e che, come un fiume carsico, vive al di sotto della politica, nel sottobosco della vita quotidiana e che per un momento si è dissipato. Un fatto casuale e enorme al tempo stesso, un’eco non prodotta da noi ma semplicemente autoriverberata da altri. Successivamente, con l’editoriale del 10 dicembre, abbiamo posto il tema di guardare alle tante realtà urbane che vivono intorno alla cintura del Grande raccordo anulare (e oltre) non con uno sguardo funzionalista o con la presunzione del localismo autoreferenziale, ma come un corpo vivente che fermenta, pieno di potenzialità che viene da anni strozzato dal disinteresse delle classi dirigenti locali e capitoline.

Piacevoli reazioni
Per quanto scritto e realizzato, abbiamo ricevuto critiche, elogi, reazioni positive e “rosicanti”, così come non sono mancati commenti acri e soddisfatti all’eco autoriverberata. E non possiamo fare altro che ringraziare tutte e tutti coloro che hanno letto quanto abbiamo scritto, amanti o denigratori della nostra piccola storia di «Rinascita». Tenendo sempre a mente quanto diceva il Principe Antonio de Curtis, al secolo “Totò”: «In tempi di crisi l’intelligente cerca soluzioni, il frustrato cerca colpevoli».
Ci anima lo spirito di analizzare i problemi al fine di provare a tracciarne soluzioni, o semplicemente per problematizzarli e criticizzarli.

Affrontiamo tempi difficili con ironia e determinazione. Un giornale non si schiera con alcuna forza politica esistente nell’arco istituzionale locale o capitolino: guarda le prese di posizione dei rappresentanti della cosa pubblica, gli atti realizzati e giudica conseguentemente la visione e la prospettiva sulla città di chi governa o fa opposizione nel nostro territorio. E, con benevole sarcasmo, ci piace ricevere critiche e subire tiratine di orecchie. Ma anche dare qualche buffetto, quando è necessario. È la stampa, bellezza.

Considerazioni generazionali
Riguardo la proposta di valutare la necessità di un “Assessorato alle periferie”, abbiamo ricevuto questa critica – tra le altre – che abbiamo scelto di pubblicare. Arriva dall’area del fronte di centro-sinistra liberal e modernista.

«[…]Penso che le periferie come il centro storico siano spazi in cui si esercita il potere e così come non esiste un assessorato al centro storico (che è uno) non deve esistere un assessorato alle periferie (che sono molte)»

In tre brevi righe viene cancellata la storia e l’origine del municipalismo, tutto viene risolto e ridotto come esercizio del potere. Il potere di chi, per che cosa, a favore di chi, non viene detto. Non si discute del merito, delle differenze tra centro e periferia, se la nostra proposta è in sé giusta o sbagliata. Si antepone come discriminante il tema del potere o il localismo feudatario che ai nostri giorni è di tendenza (e neanche poca) per il quale basta parlare di un quartiere per rappresentare la complessità di un municipio o – ancor più grave – delle mille periferie urbane.

Di fronte a tanta pochezza ricordiamo le parole del prof. Pietro Barcellona, docente che ha già trovato spazio nel nostro giornale quando parlavamo di città smarrite:

«Il potere sovrano nella modernità è diventato il potere di escludere o di includere. Il chi decide su ciò che è umano e ciò che non lo è, si sottrae paradossalmente ad ogni controllo: È puro potere. I diritti senza potere/politica si rovesciano in un potere/politica senza regole. Il potere di lasciare fuori dalla fortezza assediata è oggi sottratto ad ogni controllo democratico e ad ogni partecipazione dei popoli alle decisioni che toccano il loro destino». (Quale politica per il terzo millennio, Edizioni dedalo, p. 154-155).

Weber aggiungeva:

«La città si costruisce contro il potere imperiale, contro gli ordinamenti sovranazionali, si costituisce nella storia come potere illeggitimo. Si costituisce come corpo vivo, come assemblea che si autodefinisce e si garantisce nella reciprocità dei diritti e dei doveri. I diritti dei cittadini sono i diritti fondati sull’assemblea. Sono diritti della comunità che si riunisce, che ha stretto un patto di libertà con la “guarnigione” (l’esercito) e rivendica la propria autonomia: il diritto ad essere governati dai propri simili…inclusi i nuovi simili oltre la razza, provenienza e religione».

L’orgia del potere denuda la società
Insomma, per qualcuno anni e decenni di discussione si risolvono nell’ovvio desiderio represso di potere o nell’orgia mancata del potere. In questo delirio compulsivo si va oltre: da più parti un ceto piccolo, nel senso di piccolo-borghese di borgata, per la brama di successo personale non si vuole presentare come rappresentante delle periferie e chiede di non usare questa parola, in quanto discriminante, è in sé fonte di equivoci socio-culturali. Il tipo modernista liberal del Bar dello sport, invece di essere orgoglioso dei propri nonni o padri “borgatari” che gli hanno garantito un tetto, e tanto altr, pensa di rottamare vite e sacrifici vissuti da diverse generazioni per nascondere il nulla del loro presente. Si tratterebbe, semmai, di capire e rilanciare in forme nuove e adeguate alla nuova realtà, la storia delle lotte delle periferie per una diversa qualità della vita, e per questo sentirsi romano e fiero di esserlo. Esalta e non nasconde la provenienza in quanto erede delle generazioni precedenti che hanno conquistato con il sudore e il lavoro il diritto a sentirsi cittadini a pieno titolo della Capitale.

«Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in sé stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza». (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Costruttori di soffitte).

Se il centro-sinistra non cambia rotta e metodo di formazione (e non pare si sia mai posto il problema di farlo) dei suoi già giovani-vecchi, il futuro sarà di altri e gli sfuggirà di mano. Da questo vuoto nasce e fermenta la forza delle destre “cacio e pepe” locali: un piatto avariato per la democrazia e la giustizia sociale, di cui lo “chef” liberal-modernista-riformista, sbagliando ricetta, ne fomenta la sua avanzata.

La redazione

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