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Capitalismo e natura *

In tempi di drammatica crisi climatica, lo scontro politico si focalizza quotidianamente sul tema del negazionismo, attaccato, giustamente, da ogni versante. Tuttavia, il vero nocciolo del problema rispetto alla crisi climatica non è tanto il negazionismo duro e puro -la sua insipienza è immediatamente dimostrabile- quanto l’idea, molto più largamente diffusa, che il cambiamento climatico possa essere adeguatamente affrontato attraverso la finanziarizzazione della natura.

Il 28 ottobre 2021 i leader politici dello stato malese del Sabah, sull’isola del Borneo, hanno firmato un accordo con la società Singapore Hoch Standard (una holding con due funzionari e un capitale sociale di mille dollari Usa!) che garantisce a questa il diritto di gestione e commercializzazione del “capitale naturale” e dei servizi ecosistemici su due milioni di ettari di un ecosistema forestale per un periodo da cento a duecento anni.

Il protocollo -secretato alle comunità indigene che in quella foresta abitano e la curano- è denominato “Accordo di conservazione della natura” (sic) e permetterà alla holding (o meglio, agli investitori plurimiliardari che si celano dietro di essa) di acquisire i diritti commerciali sui diversi servizi ecosistemici che la foresta offre, dall’approvvigionamento idrico al sequestro del carbonio, dalla silvicoltura sostenibile alla conservazione della biodiversità, per entrate complessive stimate in 80 miliardi di dollari.

Le clausole dell’accordo prevedono inoltre che, mentre il governo dello stato malese del Sabah non possa in alcun modo recedere, Singapore Hoch Standard avrà piena facoltà di vendere i diritti commerciali sul “capitale naturale” della foresta senza alcuna limitazione.

E’ la prima applicazione concreta dei cosiddetti Nac (Natural Asset Companies), nuova categoria di società finanziarie lanciata poche settimane prima dal New York Stock Exchange e da Intrinsic Exchange Group per creare veicoli finanziari per la gestione dei servizi ecosistemici prodotti dalla natura.

Sono i cosiddetti “beni pigri”, così descritti dall’alfiere dell’accordo sulla foresta del Borneo, ovvero quei beni prodotti gratuitamente dalla natura che vanno finalmente messi a valore. Perché se è vero che per le persone la natura è preziosa, per i capitali finanziari questa locuzione si traduce in “la natura può avere un prezzo”.

Quanto sopra descritto è solo l’esempio più estremo -e pericoloso- di un’ideologia molto più diffusa e trasversale alle culture politiche, che, pur non negando la crisi climatica, continua a pensare che la soluzione risieda nel mercato, divinità una e trina le cui epifanie sono rappresentate dai concetti di “crescita, concorrenza, competitività”.

La stessa indiscutibilità del debito è funzionale alla sopravvivenza di questa narrazione, perché, accettandone la gabbia artificialmente costruita, solo due strade portano ad onorarne il pagamento: la crescita di questa economia e la privatizzazione dei beni comuni naturali e sociali.

Sono questi i motivi per cui chi lotta per la giustizia climatica non può che convergere con chi lotta contro il debito e contro la finanziarizzazione della vita e della natura, con la consapevolezza che questo modello non può essere in alcun modo temperato e va semplicemente abbandonato.

La prima internazionale del climattivismo, tenutasi a Milano dal 12 al 15 ottobre scorso, che ha messo insieme diverse centinaia di giovani, tante reti ecologiste e lotte ambientali provenienti da ogni parte del mondo, apre in questa direzione nuovi sentieri di speranza collettiva.

* Marco Bersani – articolo pubblicato su il manifesto dell’11 novembre 2023 per la rubrica Nuova finanza pubblica

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