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I Draghi esistono!

I Draghi esistono!

Pubblichiamo lo stralcio di un articolo di M.Revelli  tratto dal sito “Volere la Luna.”  Un Giudizio diverso del sociologo Torinese, contro l’euforia dominante della stampa, per il recente incarico affidato dal Presidente della Repubblica a Super Mario, o Super Drago per formare un nuovo Governo In Italia.

Draghi, lupi, faine e sciacalli

 

“….Che cosa scrive ora Draghi, nel pieno di una nuova emergenza (la peggiore)?  Bisogna dirlo.

Il suo è, senza dubbio, un intervento all’altezza della tragedia in corso (“la pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche”). E’ il discorso di uno consapevole della portata dirompente dell’emergenza non solo sul piano economico, ma anche su quello sociale. E della prospettiva storica: di quanto ci aspetta, se si sbaglia oggi.

Parla, come Keynes esattamente un secolo fa, delle conseguenze paragonabili a quelle “di una guerra”.

E del fatto che “le guerre […] si finanziavano attingendo al debito pubblico”. Apre così una prima breccia nel muro dell’austerity – dichiara cioè aperta una “nuova era”, per così dire, in cui appare inevitabile “un cambio di mentalità”: “Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato”, scrive. E anzi si spinge più in là, sul terreno specifico che gli compete, quello del ruolo delle banche: “Le banche devono rapidamente prestare fondi a costo zero alle aziende preparate a salvare posti di lavoro. Poiché in tal modo esse divengono veicoli di politica pubblica, il capitale di cui necessitano per eseguire questo compito deve essere fornito dallo stato sotto forma di garanzie pubbliche su tutti gli sconfinamenti aggiuntivi di conto o sui prestiti. Né la regolazione né le regole sulle garanzie devono intralciare la creazione di tutto lo spazio necessario nei bilanci delle banche a questo scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito dell’azienda che le riceve ma dovrebbe essere zero indipendentemente dal costo di finanziamento del governo che le emette”. Sono le parole dietro le quali si è immaginato da molti commentatori che si profili una vera e propria “rivoluzione” (”Questo è forse il passaggio più intrigante che fa saltare le paratie costruite finora anche dall’Unione europea”, si legge ad esempio su “Il Foglio”).

Ma è lecito chiederci: fu vera svolta?

Aldilà degli aspetti emotivi del messaggio, e dei sacrosanti richiami alle tragedie degli anni Venti e Trenta innescati dal mancato appuntamento con la Storia dei leader democratici di allora, quello evocato dalla presa di coscienza del passaggio da un’economia di pace a un’economia di guerra è davvero un “cambio di mentalità”? O, meglio, una “rottura di paradigma”, che seppellisce il dio fallito del recente passato: la furia privatistico-mercatistica dell’ultimo quarto di secolo? L’accumulazione privata come unica leva dello sviluppo economico e esclusiva regolatrice dell’ordine sociale? La funzione del “pubblico” come variabile dipendente dell’interesse privato?

Personalmente ho i miei dubbi.
Mi ha colpito, in particolare, una frase di quell’articolo apparentemente di rottura. Un punto che mi sembra contenga un passaggio centrale nel suo ragionamento, quasi una sorta di “cerniera”. Subito dopo aver parlato dell’imperativo di “intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura” e subito prima di avvertire che dovremo abituarci a vedere “alti livelli di debito pubblico” diventare un dato permanente dell’orizzonte futuro, l’ex governatore della BCE precisa, quasi en passand, che “la perdita di reddito subita dal settore privato, ed il debito raccolto per colmare la differenza, devono alla fine essere assorbiti, in tutto o in parte, dai bilanci degli stati”. Poco oltre spiegherà che le banche, in quanto in grado di “raggiungere ogni angolo del sistema economico” e “di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito”, sono lo strumento ideale per distribuire in tempo reale le risorse là dove “servono” per mantenere la sostenibilità e la dinamicità del sistema, meritandosi così la necessaria copertura dei propri eventuali disavanzi con risorse pubbliche.

Dunque “Banca” (privata) – “Impresa” (privata) – Mercato del lavoro e delle merci (privati entrambi): questo sembra, nel New Deal draghiano, il circuito privilegiato, anzi esclusivo, della regolazione sociale. Al “Pubblico” – cioè allo Stato – il compito di prestatore di ultima istanza. Anzi: di finanziatore finale di un dispositivo che rimane monopolisticamente privato. E che campeggia come unico mediatore con la Società.

Nulla lascia intendere – in questo ordine del discorso – che ci sia una sia pur minima possibilità per l’apertura di canali di erogazione diretta di risorse dalle finanze pubbliche al sociale. O per l’ipotesi – sia pur estrema – di una qualche riappropriazione di risorse finanziarie, organizzative, operative da parte del settore pubblico in forma di nazionalizzazione o di partecipazione societaria (tipo Iri delle origini, o National Recovery Act roosweltiano). Il Capitale rimane integralmente privato e mantiene appunto il monopolio della distribuzione di risorse collettive. Per questo mi sento di dire che il “paradigma liberista” rimane alla fine intatto, pur nel passaggio d’epoca. E che il vecchio motto proprietario: “privatizzare i benefici nei tempi di vacche grasse e socializzare le perdite in tempi difficili” finisce per rivelarsi – pur nella metamorfosi del linguaggio – tutto sommato intatto.”

A cura di Roberto Catracchia

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