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La condanna via social e la paura globale

I pregiudizi lasciano troppi ragazzi sul selciato del 21° secolo. I rischi di un nuovo cannibalismo sociale.

Gli ultimi fatti di cronaca ci parlano di storie con dinamiche diverse ma che possono essere poste sotto un identico fattore comune: il pregiudizio verso il prossimo, l’odio nei confronti del diverso. Storie terribili, indubbiamente, che d’altra parte hanno un rovescio della medaglia ancor più tetro: la giustificazione – tra le righe – inconsapevole della rabbia di chi uccide, così com’è successo nel caso di Willy Monteiro Duarte che ha provato a fermare la violenza dello “spacca-ossa” di turno.

“E allora?”
I social network coprono e alimentano al contempo le ire e le frustrazioni di chi sostituisce il pettegolezzo all’analisi o al pensiero più ragionato. Il valzer delle speculazioni sui morti è realtà ordinaria e di fronte a quanto accaduto a Willy, spesso, si è alzato il coro digitale degli attivisti della galassia-destra: “E allora Pamela?”, “E allora Filippo?”.
Come a sottintendere che un’italiano bianco avesse più valore di un italiano di origini capoverdiane; come a non voler ammettere, specie a destra, come s’è affermato per anni da quella parte che “i tossici rappresentano la feccia inutile e improduttiva della società” e non l’evidente catena debole di un sistema di cui spesso sono configurati come vittime e non carnefici.
Che i social siano uno strumento nefasto, in queste circostanze, è ormai acclarato: non importano l’accertamento dei fatti e il contesto, conta solo sprigionare la propria onnipotente opinione e giudizio. La moderna versione dell’Inquisizione è servita: dal giudizio composto di mouse e tastiera dipendono la reputazione o la condanna del soggetto di turno.
Con stupenda faccia tosta, chi non sa nulla urla e accusa altri di procedere per pregiudizi. Le ingiurie uguali e contrapposte, volano e si ingarbugliano post dopo post.
Vengono contrapposti i morti, le razze, le vicende per giustificare che hanno un animo già cannibalizzato, scavato dalla profonda e intensa idea del “si salvi chi può”. “Vogliamo legge e ordine”, basta che si applichi agli altri, per noi no: altrimenti vige la dittatura. Il nuovo cannibalismo sociale avanza con passo sicuro.

Crisi generale, catastrofe individuale
Un filosofo e uomo politico del passato, morto in carcere a causa della repressione del fascismo italiano, scrisse che ogni crisi generale produce una catastrofe di caratteri individuali e collettivi del genere umano. Si chiamava Antonio Gramsci. Di fronte a torsioni rapide e violente del modo di vivere collettivo, il genere umano reagisce altrettanto violentemente andando ad individualizzare la propria idea di salvezza, criminalizzando quel che è il diverso, deprimendo metaforicamente tutto quel che non ritiene opportuno per sé. Il fenomeno ha trovato maggior vigore a seguito della pandemia da Coronavirus: la situazione ci ha presentato il conto del delirio di onnipotenza del mercato globale capitalista; ponendo sotto gli occhi di tutti i numeri a tre cifre di infetti e deceduti; dei milioni di posti di lavoro andati in fumo. E l’elenco sarebbe ancora lungo.
Di fronte alla paura globale, è bene prendere in prestito le parole di Gramsci, vediamo:

«…uomini normalmente pacifici, dare in scoppi repentini di ira e ferocia. Non c’è, in realtà, niente di repentino: c’è stato un processo «invisibile» e molecolare in cui le forze morali che rendevano «pacifico» quell’uomo, si sono dissolte».

Il processo «repentino e invisibile» è dovuto dal “tutti contro tutti” connaturato dal sistema economico-sociale in cui viviamo: ognuno è nemico per l’altro, la ferocia degli uomini è sempre pronta ad emergere in qualsiasi situazione, foss’anche la più banale. Ecco perché la pandemia da Coronavirus ha portato alle estreme conseguenze un clima già negativo e depresso per centinaia di migliaia di esseri umani. La trasformazione molecolare dell’individuo e del comune sentire è stata una delle conseguenze, nonché tragiche realtà che stiamo tutt’ora vivendo, segnata dall’era Covid. Comunità, società, uomini e donne sentono sulla loro pelle il pericolo e il rischio di non avere un futuro e, qualora provassero ad immaginarlo, di non poter diradarne ogni paura per il passo successivo che devono intraprendere. Le inquietudini e le richieste popolari vanno poste sul giusto binario della rivendicazione collettiva: il compito della politica è intervenire e ragionare su come azzerare e prosciugare i fatti violenti a cui i nostri occhi si sono abituati e le nostre orecchie si sono ormai assuefatte. Una nuova “battaglia delle idee” dovrebbe partire da questo assunto.

Roberto Catracchia

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