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Una torremaurense in Norvegia, il racconto di Miriam

“Eh, ma che ci vai a fare, che fa freddo”, “Mi raccomando divertiti”, “Ma i nordici sono gente distaccata”, “Ricorda che sta lì per studiare”…

Sì sì no, mo’ me lo segno” mi veniva da rispondere, per citare un celebre film italiano.

La Norvegia è il mio sogno da quando ero al liceo, sicuramente idealizzato e filtrato dall’idea che può farsi una ragazzina appassionata di mitologia nordica e musica estrema, ma non per questo meno intenso. Poi ad aprile 2019 vinco la borsa di studio Erasmus per trascorrere un semestre a Oslo, e non mi sembra vero di poter concretizzare finalmente questo piccolo sogno; c’è ovviamente molta insicurezza, paura di stare da sola, ma anche un’enorme voglia di mettersi alla prova, una gran fame di avventura e di sapere.

Così a gennaio 2020 parto per il freddo nord (anche se, grazie al riscaldamento globale, ha nevicato sì e no quattro volte) e inizia l’avventura. L’università ha organizzato una settimana di benvenuto per gli studenti in scambio culturale, con gite, serate e la possibilità di conoscersi meglio in piccoli “buddy groups” gestiti da studenti norvegesi volontari. Posso confermare che sono gente riservata, ma quando si sciolgono, dopo quindici giorni o quindici birre, sono davvero disponibili e fanno volentieri conversazione con chi prova a parlare nella loro lingua (anche qui, niente aiuta a sciogliersi come la birra).

Un sogno che si avvera. Lezioni universitarie interessanti. Mezzi pubblici che funzionano. Aria che non puzza di smog. Niente slalom tra la spazzatura sui marciapiedi. Imparare la lingua sul posto.

“Sì, ma ndo sta la fregatura?” E mo’ arriva, un attimo di pazienza.

Arriva dall’oggi al domani, la vedi prima come una cosa lontana che non ti riguarda, da fuori, una cosa che nasce e muore dall’altra parte del mondo. Ma poi inizia a spostarsi. E a diffondersi. Sempre più grande, sempre più in fretta, sempre più lontano. Alla radio norvegese si parla dei contagi in Italia, su internet non si legge altro, ogni ora il bollettino di guerra sembra non dare tregua. Preoccupazione e dispiacere per la famiglia e gli amici in Italia, certo, ma sempre la sensazione di star guardando da fuori un episodio di Black Mirror.

Poi anche Oslo. Chiuse università, pub, biblioteche, alcuni negozi, concerti annullati, mascherine esaurite, carta igienica non ne parliamo, esodo di studenti che rimpatriano prima che si chiudano i confini. Il governo dice che sono misure preventive, meglio stare a un metro di distanza, evitare assembramenti e mille amenità che conosciamo a menadito.

Fatto sta che Songsvann, il laghetto appena fuori città, di martedì mattina brulicava come via del Corso di gente che passeggiava, correva e giocava senza mascherine e a meno di un metro.
Fatto sta che anche qui la gente fa scorte prebelliche di carta igienica e pizza surgelata.
Fatto sta che i miei amici non sono potuti salire a trovarmi perché è scoppiata una pandemia.
E non ha nemmeno senso arrabbiarsi, perché con chi ti arrabbi? Cosa risolvi arrabbiandoti? Tanto vale approfittare per studiare, consumarsi le rètine su Netflix, studiare, dare vita a un Bake Off casalingo, studiare…

Certo è triste, egocentricamente parlando, passare l’Erasmus in camera a imparare il norvegese ascoltando la radio invece di uscire e parlare con le persone al pub. Ma è qualcosa di più grande di me, di te che leggi questo mio sfogo, del Re di Norvegia e di chiunque sul pianeta. Perciò sono felice di essermi goduta i primi due mesi pieni di questa avventura.

A conti fatti, da questo Erasmus ho imparato due cose che mi serviranno per la vita: mai fare progetti con troppa sicurezza senza il dovuto margine di imprevisti, piuttosto andare avanti con “più una sorta di traccia, che un vero regolamento”, per citare Pirati dei Caraibi. La seconda è ordinare la birra e chiedere lo scontrino.

Bli hjemme folk, alt blir bra.
[Restate a casa gente, andrà tutto bene]

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