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Platone e il taglio dei parlamentari

«Abbiamo troppi parlamentari: vado a votare “sì” così almeno si dimezzano, e basta! Sono tutti ladri, almeno ce ne saranno di meno!». Questo più o meno è il ritornello che abbiamo ascoltato fino ad oggi, ultimo giorno in cui è possibile votare per il referendum riguardo il “taglio dei parlamentari”. In fondo, se sono meno, ruberanno meno. L’equazione, però, è destinata a un punto di caduta piuttosto evidente: meno controllo si ha a riguardo, più possibilità ci sarà che i pochi eletti siano quei disonesti di cui sopra. Sarebbe interessante, piuttosto, tagliare lo stipendio e aumentare il numero dei rappresentanti del corpo elettorale. Ma questa è un’altra storia.

È bene procedere con ordine.
Che c’entra Platone con il taglio dei parlamentari?
Il filosofo greco, in gioventù, amava occuparsi della cosa pubblica: in Grecia, al tempo della “polis”, tutto era politica perché occuparsene significava intraprendere un percorso di assunzione di responsabilità di se stessi e degli altri appartenenti alla città (polis). Non occuparsene significava essere inutile nei confronti della comunità. Platone, nonostante amasse occuparsene e interessarsene, si distaccherà dalla politica: troppa corruzione, troppe persone che “mangiano” a scapito del corpo sociale della città. Ad un certo momento della sua vita è favorevole all’accentramento dei poteri: ci sono troppi rappresentanti del popolo, tagliamone qualcuno. Anche Platone è a favore di questo cambiamento, in più alcuni dei suoi familiari sono proprio quei componenti che andranno ad occuparsi della polis. Il problema è che quelle poche persone che stavano ad occuparsi della cosa pubblica erano riuscite a far rimpiangere all’allievo di Socrate il corrotto regime precedente.

Platone, nelle Lettere, scrisse così:

«Quando ero giovane, io ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Or mi avvenne che questo capitasse allora alla città: il governo, attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantun (51) cittadini divennero i reggitori dello stato. Undici furono posti a capo del centro urbano, dieci a capo del Pireo [il porto ndr], tutti con l’incarico di sovraintendere al mercato e di occuparsi dell’amministrazione, e, sopra costoro, trenta magistrati con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni miei familiari e conoscenti, che subito mi invitarono a prender parte alla vita pubblica, come ad attività degna di me.  Io credevo veramente (e non c’è niente di strano, giovane come ero) che avrebbero purificata la città dall’ingiustizia traendola a un viver giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto.
M’accorsi così che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l’altro, un giorno mandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo ch’io non esito a dire il più giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino per farlo morire, cercando in questo modo di farlo loro complice, volesse o no; ma egli non obbedì, preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. Io allora, vedendo tutto questo, e ancor altri simili gravi misfatti, fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. Poco dopo cadde il governo dei Trenta [Trenta Tiranni ndr] e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia pure meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. Anche allora, in quello sconvolgimento, accaddero molte cose da affliggersene, com’è naturale, ma non c’è da meravigliarsi che in una rivoluzione le vendette fossero maggiori.
Tuttavia bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poi
che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il più alieno dall’animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato, e lo uccisero, lui che non aveva voluto partecipare all’empio arresto di un amico degli esuli d’allora, quando essi pativano fuori della patria.
Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all’amministrazione dello Stato, restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e d’altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perché i costumi e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla città, e impossibile era anche trovarne di nuovi con facilità. Le leggi e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene».

Il tempo in cui Platone aveva avuto desiderio di occuparsi della cosa pubblica terminò in un batter d’occhio: arrivarono i Trenta, i tiranni, e il regime fu quello dell’impossibilità del controllo cittadino sulla polis. I costumi andavano corrompendosi, dice Platone, e scrive che vide tutto “completamente sconvolto”.
Lo stravolgimento a cui l’Italia cerca di andare incontro, riciclando i non proprio fasti slogan del precedente referendum del 2016, è uno di quelli da cui non si potrà facilmente tornare indietro, né vi si potrà ragionare a mente fredda. Il controllo in meno mani implica ancor minore onestà, secondo Platone: “è difficile rimanere onesti in politica”, dirà in un’altra lettera; avere meno rappresentanti non è garanzia di minore corruzione se quei pochi possiedono le stesse garanzie per far sì che quella “casta” rimanga impunita.

Platone l’aveva detto centinaia di anni prima della nascita di Cristo ma questa è una prova evidente di cui la Storia insegna a chiunque la voglia stare ad ascoltare. Il punto è proprio questo: la Storia insegna, ma non ha studenti che la ascoltano. Fanno sempre sega al bar di fronte scuola.

Marco Piccinelli

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