Il 20 marzo [2020] è stata una giornata molto calda: più che un anticipo di primavera sembrava il prodromo di una torrida estate ormai alle porte. Le famigerate mezze stagioni ormai inesistenti: d’un tratto la giacca a vento è superflua. È un attimo che ti ritrovi in maglietta, camicia sbottonata davanti e maniche arrotolate sulle braccia.
Andare al Decò all’incrocio di Via dell’usignolo rappresenta uno di quei momenti necessari, così sanciti dai vari Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), a cui qualche torremaurense non rinuncia, se non altro per fare qualche passo, dopo giornate chiusi in casa.
Si aspetta diligentemente in fila: il piccolo serpente umano va dalla porta automatica di quello che un tempo si sarebbe detto l’alimentari del quartiere (Cetorelli ora pro nobis) fino all’ormai ex ferramenta di Renato. Possono entrare massimo due persone, una sola per famiglia, questo dice la norma e questo si applica con senso civico del dovere, condito abbondantemente da paura causata dal morbo che imperversa ormai nel mondo intero e per cui i telegiornali di prima serata snocciolano numeri e decessi sempre più elevati.
Aspetto sulla soglia della porta la mia compagna che è etrata per rimpinguare le scorte di casa, al momento opportuno, cioè quando la cassiera mi fa cenno di avvicinarmi, potrò entrare per supportarla con le casse d’acqua.
Muove la mano facendomi cenno di entrare, varco la soglia e mi appropinquo agli scaffali che contengono svariati litri di acqua minerale, frizzante, naturale, opportunamente ordinate fra loro.
Io e la cassiera instauriamo una piccola conversazione, una di quelle che va ad esaurirsi nel momento in cui io e la mia compagna usciremo dall’esercizio commerciale, mi fa: «Stavo a legge le notizie dice che fra un po’ ci sarà un decreto nuovo», io rispondo che forse sarà stasera [ieri, venerdì 20] e lei annuisce «già, vero, deve esse a borse chiuse».
A borse chiuse.
Il messaggio è passato in tutti i modi e in tutti gli strati sociali: i discorsi pubblici e politici vanno fatti a «borse chiuse». Guai a condizionare i mercati, gli speculatori finanziari e il capitalismo globale.
Tutti noi, che abitiamo la periferia, abbiamo “capito” che le nostre vite valgono molto meno dei profitti del capitalismo globale, di quella decina di persone, di ricchi, che detiene la ricchezza del paese intero: la periferia tende così ad essere doppiamente sfruttata. Da un lato la subordinazione nei confronti del centro, dei quartieri-dormitori che si vengono a sviluppare sulle direttrici che portano molto lontano da Roma (Pantano, Ponte di Nona, Castelverde) per cui migliaia di lavoratrici e lavoratori sono costrette e costretti ad imbarcarsi (letteralmente) fino anche due ore prima del proprio orario lavorativo per evitare di fare tardi sul posto di lavoro, ore evidentemente non facenti parte del contratto e che sono tolte alla vita di ognuna e ognuno di loro. Dall’altra, la condizione quasi ontologica di periferia fa in modo che questa sia sempre considerata come proverbiale fanalino di coda di qualsiasi contesto urbano – e dunque sociale – in cui è inserita.
Tutti noi che abitiamo la periferia abbiamo introiettato il nostro status di cittadini, elettori, dunque popolazione, di serie C. La serie B non ce la possiamo permettere.
Tutti noi che abitiamo in zone periferiche abbiamo fatto nostro il ritornello di chi comanda a bacchetta questo paese e che afferma come i settori operai non si debbano fermare, perché altrimenti ne va del Pil italiano e di conseguenza delle vite di tutti noi.
Perché dipendiamo dalle borse e dai mercati.
Prima apriremo gli occhi sulla nostra condizione di sfruttati e prima romperemo le catene che ci tengono abbarbicati ad una vita misera, priva di umanità dettata solo dagli impulsi che il sistema economico capitalistico ci fa vivere.
La guerra – come giornalisti e professori universitari l’hanno chiamata – contro il coronavirus è una certezza, così come lo è quella contro il capitalismo, solo che quest’ultimo rappresenta una patologia infinitamente più grave: è lo stesso sistema sociale che ha demolito ovunque i servizi sanitari per favorire il sostentamento alle banche e ai capitalisti e riverserà nuovamente la propria crisi sulla maggioranza della società a partire dal lavoro. Periferia inclusa. Anche per questo la guerra contro il coronavirus è inseparabile da quella contro il capitalismo. È il caso di dire: o la Borsa o la vita.
Anche perché non abbiamo nulla da perdere all’infuori delle nostre catene: abbiamo un mondo da conquistare.
Antonio Leone
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