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Coronavirus: sanità privata, soldi pubblici

Negli ultimi 20 anni la sanità pubblica ha subìto tagli lineari pari a 37 miliardi di euro. Una cifra davvero “astronomica”. Che direzione hanno preso i 37 miliardi sottratti al servizio sanitario nazionale? In altre parole: dove sono andati quei soldi che prima servivano per  mantenere la sanità pubblica e poi sono diventati “in più” perché bisognava “razionalizzare” la spesa?

Una parte dei soldi è servita a finanziare e contenere il debito pubblico e gli interessi sul debito: questi ultimi si aggirano sulla altrettanto enorme cifra di 60 miliardi ogni anno. Questa gigantesca mole di risorse sottratte ai servizi sociali, sanità inclusa, è andata a chi ha comprato i titoli pubblici, cioè ai detentori del debito italiano. Ovvero, principalmente le banche ma non solo quelle “tedesche” o “straniere” come la propaganda sovranista vende un tanto al chilo, principalmente, più di ogni altro, alle grandi banche italiane, assieme alle compagnie di assicurazione. L’ipocrisia giunge al culmine quando si calcola che quelle stesse banche controllano buona parte della grande stampa (giornali, tv, settimanali) che dovrebbe testimoniare “il disastro della sanità”. Con quale obiettività? Nessuna, per l’appunto.

Ma torniamo al punto principale: la sanità che fu pubblica.
Nello stesso periodo in cui si tassava senza fine la sanità pubblica, quella privata o convenzionata veniva finanziata con 15,8 miliardi di euro (attorno al 2000). Nel 2016 aumentava a 31,5 miliardi di euro e in quegli stessi anni stava già dilagando il taglio e la soppressione degli ospedali, dunque dei posti letto: circa 30.000, così come le postazioni di terapia intensiva. Già nel 2004 il convegno internazionale di Trieste sulla medicina d’urgenza denunciava la drammatica carenza dei posti di terapia intensiva negli ospedali italiani, che stavano al di sotto del 3%, un terzo della media europea. Nei tredici anni successivi quella soglia è stata ulteriormente tagliata al ribasso.

Più si tagliava lo spazio della sanità pubblica, più si ampliava il mercato di quella privata, e più saliva il drenaggio dei privati sulle risorse pubbliche attraverso il sistema delle convenzioni. Grazie a queste risorse diversi gruppi industriali della sanità privata hanno accumulato enormi fortune, investendole a loro volta in lucrosi affari immobiliari e finanziari.

Basti pensare al Policlinico Casilino: da polo di riferimento sanitario per tutto il quadrante casilino, ad appendice di Eurosanità Spa. Società per azioni, dunque quotata in borsa, dunque: più malati e più ricoveri significa più guadagno. Profitto sulla pelle dei malati e della periferia.
Il cambio di passo è avvenuto nel 2016: dopo 14 anni di gestione privata e statale, il Policlinico Casilino è diventato «ospedale privato accreditato». I medici che ne facevano parte sono rietrati alla Asl di appartenenza e chi ha deciso di rimanere «ha firmato un contratto privato». Tutto questo grazie al decreto regionale della Giunta Zingaretti di quell’anno che ha permesso la privatizzazione integrale del polo statale. E questo solo per pensare al nostro quartiere. Se si pensa al Paese nella sua interezza la questione è ben più articolata.

Basti pensare al gruppo Tosinvest, agli Angelucci, ai Rotelli, ai Rocca. Nuove dinastie della borghesia italiana si sono fatte largo per questa via, sino a fare nel 2018 il proprio ingresso in borsa, dove i titoli della sanità privata hanno conosciuto in soli due anni una crescita di valore del 56,9%. Un autentico record.

Ecco, quando parliamo ogni giorno del dramma sanitario in atto, delle morti silenziose e terribili senza il conforto delle persone care, teniamo anche uno sguardo d’insieme sulla natura della società in cui viviamo, quella del sistema capitalistico. Perché la radice di tutto sta lì. Ripartire dai bisogni dei malati e della salute significa chiamare in causa l’intero ordine sociale, ben al di là di un virus che ci sta facendo sperimentare un regime di reclusione collettivo. Ricordiamocelo per quando tutto sarà finito.
Quando dovremo presentare loro il conto.

Antonio Leone

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