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Breve e lagnosa apologia del “diritto al mugugno”

Qui, tra il serio e il faceto, scegliamo il faceto; questa la linea, adeguarsi, compagni!
Prima di iniziare la lagnaccia mascherata da articolo (nonostante tutto ancora non ho inaugurato la rubrica
dell’’Orzetto di Nicoletti’) sento la necessità di raccontarne la genesi: in principio eravamo io, me, mi madre,
mi sorella, l’illustrissimo – ac reverendissimo – direttore galattico di codesta testata, su madre e su padre attorno ad una tavola apparecchiata con tutti i crismi – un bacetto a Daniela – e riempita delle più lussuose
leccornie che Roma Est abbia mai visto – che non mi si accusi di piaggeria, per carità, non è adulazione, è
fedele ricostruzione dei fatti – intenti a discorrere di quel paradiso di organizzazione che è la scuola.

Appena possibile, essendo in fin dei conti estraneo al discorso – se non come esempio del fallimento del
sistema scolastico – e volendo dare il mio contributo, ho citato una cosa che era solito dire mio padre –
militare, come ti sbagli – per zittirmi quando mi lamentavo dopo che non avevo fatto il mio dovere; ovvero
che non potevo piangere l’assenza di giustizia dal momento che neanch’io avevo fatto il mio, dovevo guadagnarmi il diritto al mugugno. Ora, non fraintendete, mio padre era uomo, sì militare, ma di inenarrabile bontà e di straordinaria propensione all’empatia, tra i due è sempre stata mia madre – ministeriale – la legge e l’ordine; però persino lui non era riuscito a fuggire una retorica che vuole il diritto un premio – la sua privazione una punizione accettabile – e non, appunto, un diritto.
Oggetto era lo ‘Ius murmurandi’, diritto negato nei regimi totalitari, nelle gerarchie militari e nel momento di scelta del vino – qui mi preme dichiarare la mia stima più assoluta nei confronti di chi cambia vino dopo l’assaggio, eroi sinceri e sbevazzoni. Tale diritto ha tre nemici naturali: lo stato, la società, l’Io. Non credo siano necessarie molte parole per descrivere i rapporti tra stato e lamentele, in fondo ogni atto di censura o di concessione volta a rabbonire i rivoltosi non è altro che un tentativo di disinnescare l’ordigno nascosto dallo strato melmoso della lamentela.
Tornando a mio padre, era solito raccontare una barzelletta sull’Unione Sovietica che può chiarire i rapporti stato-lagna: tre spie si incontrano in un bar, una dell’MI6, una della CIA ed una del KGB. Il barista chiede a ciascuno come si viva nel paese dal quale proviene. Il primo dice «da noi si beve molto thé e mi piace essere suddito di Sua Maestà, non mi posso lamentare», il secondo prosegue, «da noi ognuno può avere un’arma e siamo sempre pronti a combattere per la democrazia, non mi posso lamentare», mentre il terzo: «non mi posso lamentare». Perplessi, gli altri due chiedono spiegazioni, e lui «vedo che non avete capito: non mi posso lamentare». Il secondo nemico della lagna però ci mostra come anche al di fuori di regimi totalitari questa non goda il favore del pubblico: infatti benché noi non si faccia altro che scandalizzarci di questo o quello è possibile, alla sera, chiudendo gli occhi, sentire il brusio, il suono scuro e malevolo dello stigma nei confronti di chi – folle suicida – commette l’errore di lamentarsi degli schemi che la società si impone. Possiamo dire, in un certo modo, che la società si difende lamentandosi di chi si lamenta e costui non fa che lamentarsi di una società che si lamenta delle sue lamentele.

A questo punto la mia formazione da ingegnere informatico mi impone di evitare schemi ricorsivi capaci di trascinarci in vorticosi abissi e di passare oltre. L’ultimo nemico della lamentela, il più subdolo, è l’Io, perché, spaventato da stato e società, rivolge su di sé questo tesoro di inestimabile valore che è la lagna, rendendolo sterile se non dannoso. Perché in un mondo dove protestare mi è vietato e piangere è visto con disprezzo non può che essere mio il piede che mi calpesta; ragionamento valido solo per i contorsionisti. Con un po’ di onestà in più potremmo finalmente distinguere ciò che è colpa del mondo, ciò che è colpa nostra e ciò che «uffa però».
Ed è a questa, questa meravigliosa parte che io dedico tutto il mio amore; ciò che ci smuove, ciò che non capiamo, ciò che unisce miliardi di voci in una sola esclamazione: «regà, che palle!»

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