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Il 4 giugno 1944: Roma viene liberata

Il 4 giugno 1944 la città di Roma viene liberata dalla V armata statunitense ponendo fine all’occupazione nazifascista durata 271 giorni.
La Liberazione di Roma, tuttavia, non è un momento bensì il punto d’approdo di un lungo percorso iniziato l’8 settembre 1943, quando i microfoni dell’Eiar trasmettono in tutto il dilaniato Paese la voce del Maresciallo e Capo del Governo Pietro Badoglio.
È l’armistizio:

«Il governo italiano riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

Dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944
Dopo l’armistizio, gli Alleati chiesero attacchi ai partigiani che erano molto attivi a Roma. Dollmann, comandante delle SS in Roma, sciverà nelle sue memorie, dopo la guerra, che Roma era stata la Capitale dell’Europa che aveva dato più filo da torcere ai tedeschi occupatori. I nazisti occupano le più grandi capitali europee: Parigi, Vienna, Belgrado, Sarajevo, eppure a Roma si fermano perché incontrano una Resistenza ostinatissima e, nei limiti del possibile, molto organizzata. Una Resistenza che al termine della guerra di Liberazione di Roma lascerà «sul terreno circa 1.700 caduti» ma a cui vanno aggiunti circa 10.000 deportati in Germania. A ricordare queste cifre è stato Massimo Rendina, il Comandante Max, in un articolo scritto nel 2011 sul quotidiano «Liberazione». Persino Kesselring nei suoi diari racconta degli stretti rapporti che c’erano fra la cosiddetta “resistenza passiva” e disarmata della popolazione e la durezza della “resistenza attiva”, degli attacchi militari condotti a Roma e nelle città del Lazio. Quando si parla di Resistenza a Roma si sta questionando sulla memoria di donne e uomini, spesso poco più che ventenni, che formavano le organizzazioni del Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) e non. Le forze politiche antifasciste più attive, nonostante in clandestinità, erano: il Partito Comunista Italiano (Pci), il Partito d’Azione (Pd’Az), il Partito Socialista di Unità Proletaria (Psiup) e Bandiera Rossa che diede un contributo importante alla causa pur non facendo parte del Cln. E poi democristiani della Dc, monarchici, reparti dell’esercito italiano e via dicendo.
Dollmann e Kesselring ne sanno qualcosa dell’ostinazione partigiana: il loro esercito era il meglio armato e organizzato di tutto il mondo eppure alla borgata del Quadraro si fermano e non riescono più a imporre la loro volontà militare di occupatori perché, diranno, quel posto è un “nido di vespe”.
Roma per i tedeschi era una città interna, che oggi chiameremmo dell’hinterland di un territorio geograficamente vasto, un luogo dove mandare in licenza i soldati che si erano fatti settimane e settimane in prima linea, e proprio per questa ragione la resistenza cittadina non dà pace all’occupante: diventava ogni giorno più difficile per i nazisti rimanere a Roma senza contare dei giorni senza vittime. Tanto più che nei giorni di marzo (tra l’8 e il 18) antecedenti all’attacco di via Rasella (23 marzo 1944), che sarà organizzato e attuato dal Gap di Mario Fiorentini, gli americani bombardano la Capitale tutti i giorni nei punti nevralgici (strade, stazioni, ferrovie, fabbriche etc) e, secondo varie stime, si arriva a supporre la cifra di duemila morti e ottomila feriti. I rastrellamenti di interi quartieri erano all’ordine del giorno: il Commando tedesco (Aussenkommando) spesso chiude strade e vie d’accesso di interi quartieri per poterli rastrellare arrestandone gli uomini abili per poi schedarli alle caserme di Via Giulio Cesare e portarli in Germania a lavorare. Proprio davanti la caserma in questione viene uccisa Teresa Gullace, donna che sarà poi d’ispirazione per il personaggio della Sora Pina in «Roma Città Aperta» di Roberto Rossellini. Da quel momento in poi, dal giorno dopo l’uccisione di Teresa Gullace, cioè dal 4 marzo 1944, la situazione a Roma diventa insostenibile per i nazisti: il 4 marzo i partigiani ammazzano il commissario di polizia di Centocelle, il 5 viene ucciso un ufficiale tedesco sulla Casilina. Centocelle viene rastrellato: 25 morti. Settantaquattro anni dopo, il 4 giugno 2018, «lo storico quartiere di Centocelle ha ottenuto la Medaglia d’Oro al Merito Civile per il suo impegno nella lotta di Liberazione dal nazifascismo durante i nove mesi dell’occupazione tedesca della Capitale».

Senza Resistenza romana la V Armata non sarebbe entrata a Roma
Questo è certamente un punto su cui riflettere: gli americani sono impantanati nel basso Lazio e i tedeschi respingono ogni attacco alleato. Il comando statunitense decide che era giunto il momento di sbarcare ad Anzio: i nazisti avevano ammassato le proprie truppe a Cassino e gli americani non riuscivano a sfondare il muro nazista. Quando si parla delle ormai celebri offensive dell’Abbazia di Montecassino, finite anche in giochi per computer e console varie, si sta parlando proprio di questo, per dirla come l’ha detta il prof. Alessandro Barbero nel corso di una sua celebre conferenza a Sarzana: «Dei tedeschi si può pensare quello che si vuole, ma la guerra la sapevano fare». E anche piuttosto bene. L’obiettivo americano, per tornare al punto, avrebbe dovuto creare una testa di ponte ad Anzio oltre lo schieramento tedesco sulla linea Gustav, così da aggirarla, costringendo i nazisti a manovrare le truppe distogliendole dal fronte cassinate e, infine, permettere lo sfondamento della V Armata al cui comando vi era il generale Clark.
Le aspettative sono una cosa e la realtà è sempre un’altra.
Molti abitanti, di Roma e del Lazio, conoscono certamente la località “Campo di carne”: quel toponimo così apparentemente macabro in realtà non è stato chiamato in quel modo a seguito della Guerra Mondiale per ricordare i molti morti americani nello sbarco ad Anzio e Nettuno, ma il caso vuole che “Campo di carne” si chiamasse così circa dal seicento.
Le aspettative americane erano, come detto, aggirare la linea Gustav, creare la testa di ponte di Anzio, prendere di soppiatto i tedeschi e arrivare in maniera piuttosto snella a Roma.
I nazisti, però, fermano di netto gli americani inchiodandoli sulle spiagge di Anzio e Nettuno: «sui muri di Trastevere compare una scritta “Americani, resistete, veniamo noi a liberarvi”». Solo il 15 maggio gli americani riuscirono a sfondare a Cassino e

«la battaglia per Roma, bloccata dopo il fallimento dello sbarco di Anzio, ricominciò.
Le nostre formazioni ripresero con più intensità gli attacchi ai tedeschi (nella zona di Palestrina, per il nostro orgoglio, furono affissi dai comandi nemici i famosi cartelli “Acthung! Banditen!”), i tedeschi risposero con la nota brutalità, anche con rappresaglie che ci colpirono direttamente (la famiglia Pinci – il padre, i tre figli e le due figlie, che facevano parte della nostra formazione – furono massacrati davanti alla vecchia madre)».

 

Senza la Resistenza cittadina di Roma, gli americani non si sarebbero trovati con le “spalle coperte” tanto da poter avanzare ed entrare a Roma: «Se per gli Alleati l’Italia era diventata soltanto uno scenario secondario della grande guerra contro il Reich, per i romani i bollettini di guerra che segnalavano lo stallo degli angloamericani sulla linea Gustav erano uno stillicidio di amarezza senza fine» (“Roma occupata: 1943-1944”, Anthony Majanlahti, Amedeo Osti Guerrazzi).

Il 4 giugno 1944
Quel giorno come racconterà dopo la guerra il Comandante “Max”, i gruppi delle brigate Garibaldi, dei Gap di Roma e del territorio limitrofo, che qui diremo “provinciale” nonostante l’evidente inesattezza del nome, lui e Carla Capponi procedono verso Tivoli per un incarico da portare a termine insieme a Mario Fiorentini che li avrebbe aspettati sul posto. Ma la storia spesso procede a zig-zag e allora “Max” riesce addirittura ad andare oltre le linee tedesche. La mattina del 4: «all’altezza di Ponte Mammolo fummo fermati da reparti tedeschi in ritirata disposti in posizione di combattimento».
Un ufficiale tedesco li ferma e gli chiede dove stessero andando, dato l’evidente posto di blocco e impossibilità di andare oltre, si inventano di essere sposati e di voler raggiungere il figlio a Tivoli. L’ufficiale risponde loro che il loro percorso che loro vorrebbero intraprendere non è minimamente percorribile: «A due chilometri da qui ci sono gli americani». Non controllarono neanche gli zaini, nessuna ispezione. Solo un  Rendina e Capponi non gli credettero e vollero proseguire a tutti i costi: i tedeschi li lasciarono passare.
Gli americani erano davvero a pochi chilometri dall’attuale ubicazione di Ponte Mammolo:

«Tornammo indietro, attraversammo di nuovo, questa volta verso Roma, le linee tedesche e raggiungemmo il centro militare in Roma, cui demmo la notizia che gli alleati stavano effettivamente arrivando, e che li avremmo visti in serata in città. Per tutto il giorno, sulla via Tiburtina, dove ci eravamo fermati presso il comando di zona, vedemmo sfilare i tedeschi in ritirata, e ci sembrava ancora un esercito imponente, con le sue artiglierie pesanti e i suoi carri armati. Ma quando arrivarono gli americani, con le loro attrezzature e le loro armi, i tedeschi che erano passati poco prima ci sembrarono dei pezzenti, né riuscimmo mai a capire perché, malgrado l’enorme sproporzione di mezzi e la grande quantità di uomini che avevano a disposizione, gli Alleati ci avessero messo tanto tempo ad arrivare a Roma».

Marco Piccinelli

A fine di questo articolo va fatta una precisazione. Per parlare della Liberazione di Roma non basterebbe, forse, un libro di qualche centinaio di pagine, figuriamoci un breve articolo che appare su un giornale territoriale esclusivamente in forma digitale.
L’intento di questo scritto è, piuttosto, quello di raccontare, tanto storicamente quanto divulgativamente, quel che accadde in quei giorni e in quelle fasi così concitate e che facciamo fatica ancora oggi a comprenderne l’esatto sviluppo sulla cosiddetta linea temporale.
Rappresenta, in buona sostanza, il primo passo di un lungo percorso storico che apparirà sulla «Rinascita».

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